San Benedetto Abate

La Chiesa e il Monastero di San Benedetto, opere monumentali di grande respiro, furono concepiti, voluti e sovvenzionati dai Signori della Terra più illuminati, che Militello abbia avuto: Don Francesco Branciforte e sua moglie la Serenissima Donna Giovanna d’Austria.

L’uno vissuto nell’età giovanile in un ambiente raffinato qual’era la Corte di Spagna, l’altra vissuta in ambienti decisamente votati alla pietà cristiana e alla religiosità più osservante, quali il monastero benedettino di clausura di S.Patrizia e quello di S.Chiara di Napoli.

A tali doti spirituali si aggiungevano le immense ricchezze di entrambi, l’amore verso la Terra di Militello e il desiderio di contribuire all’elevazione culturale e religiosa dei sudditi.

Detto complesso monastico è l’opera più maestosa che sia sopravvissuta per eternare la loro munificenza e generosità e per Militello è di grande decoro non solo come edificio destinato a luogo di sepoltura per il casato Branciforte e i discendenti, ma anche per il prestigio in sè dell’Ordine Benedettino, uno dei massimi che vanti la chiesa.

Lo vollero far sorgere nel piano dell’Annunziata fuori del centro abitato, in un terreno chiamato Chiusa di Geronimo Tutino nel quartiere allora di S.Antonio di Padova su progetto dell’architetto Valeriano de Franchis Mathefeos, il quale aveva progettato il monastero di S.Nicolò La Rena di Catania.

Le Cronache di Filippo Caruso riferiscono che, se dopo la figlia Margherita i principi avessero avuto un figlio maschio, l’opera monastica da costruire sarebbe stata edificata per i PP.Gesuiti (che allora assiduamente frequentavano il palazzo dei principi) e sarebbe sorta vicino alla chiesa di S.Caterina in prossimità del castello. Invece, dopo Margherita nacque ancora una femmina, Caterina e poi un’altra ancora, Flavia, ed allora i principi vollero che si costruisse un complesso monastico benedettino, anche perché il fratello di Don Francesco, Vincenzo, era monaco benedettino (divenne abate del monastero di Nuova Luce di Catania). Da quel momento i Gesuiti non tornarono più a Militello.

La presenza dei padri benedettini a Militello ha qualcosa di leggendario, perché taluni sono portati a legittimare la loro presenza in tempi più antichi in un luogo mai individuato, ma che viene tramandato col nome della Cava dei Monaci nel fossato di Loddiero. Con molta probabilità vi sarà stato qualche luogo di eremitaggio forse appartenente a qualche ordine religioso diverso dai benedettini. Tuttavia il luogo citato dal Pirri come Pirato (forse Priorato) ed attribuito a Militello, apparterrebbe invece a Mazzarino, dove tuttora esiste tale contrada.

Tutti i documenti e le necessarie autorizzazioni alla nuova costruzione arrivarono con tempestività, data la nota influenza che i prìncipi esercitavano su alti prelati e personalità politiche. In data 12 Marzo 1614 presso il notaio Antonino Balba di Militello essi costituirono i capitoli per la fondazione di S.Benedetto, concedendo una rendita annua di 250 once per la fabbrica e per la sussistenza di 13 monaci. Tale rendita successivamente sarà aumentata da Donna Giovanna di 860 aurei per elevare nel contempo a venti i monaci, da lei completamente sovvenzionati. Il 21 Gennaio 1615 avvenne l’approvazione dell’Ordine Monastico Cassinense con atto del notaio Orazio Castellano di Bologna, ma i lavori per le fondamenta erano stati già iniziati con la spesa di duemila aurei. Il 24 Marzo 1616 l’Arcivescovado di Siracusa notificava il beneplacito apostolico pervenuto con la Bolla del Papa Paolo V.

Fondazione della chiesa e Posa della Prima Pietra

Si approfittò della festività della Madonna della Stella di quell’anno 1616 per elevare il tono della festa per la fondazione della nuova chiesa di S.Benedetto. Furono fatti venire a Militello valenti artisti d’Italia, i quali per quindici giorni continuamente prima e dopo l’8 Settembre, recitarono piacevoli commedie. Il giorno di festa della Madonna (forse fu l’Ottava) nella chiesa di S.Maria fu celebrata la Messa pontificale dall’abate di S.Nicolò La Rena di Catania, Gregorio La Motta (o Motta), assistito da venti monaci, il quale ebbe a sottolineare che con la costruzione del complesso monastico di S.Benedetto “trattavasi della traslazione della sepoltura di detti Signori della Terra da quella chiesa al monastero”. La musica era stata composta dalla stessa principessa Donna Giovanna e fu di sommo gradimento per tutti. Alle ore ventidue (ore 16) si corse il palio e dopo, appena cantati i Vespri, si formò una lunghissima processione con inizio dalla chiesa di S.Caterina, sita nell’atrio di sud-ovest del Castello di fronte alla fontana Zizza, per portarsi nel piano dell’Annunziata per la posa della Prima Pietra; lì in due appositi palchi presero posto gli intervenuti: in uno le autorità religiose e nell’altro i principi e i suoi cortigiani.

La cerimonia avvenne con il saluto di duecento archibugieri, che spararono a salve, e con appropriati riti e canti religiosi, nonché con la benedizione ad opera dell’Abate; in una cavità della prima pietra, murata nell’angolo sinistro dell’area della costruenda chiesa, vennero inserite diverse monete dell’epoca. Il pubblico venne allietato con musiche e con rappresentazioni e giochi.

Inaugurazione della chiesa

In data 5 Ottobre 1619 dopo la messa pontificale, celebrata nella chiesa Madre di S.Nicolò, l’abate Teodosio Masizio da Catania solennizzò l’inaugurazione del nuovo tempio benedettino con una lunga processione, a cui presero parte anche 32 monaci per trasferirvi il SS. Sacramento. Nell’occasione il priore padre Vittorino da Militello compose i testi di due Rappresentazioni Sacre l’Epifania e La Natività del Signore, dedicate a Donna Giovanna d’Austria, scoperte presso la Biblioteca Nazionale di Palermo.

Il complesso monastico sorgeva con diverse sostanziose obbligazioni di sovvenzioni da parte dei principi, ma anche dei loro successori: una piantagione di ventimila viti, la tenuta della Gisira, la tenuta Fara estesa cinque salme, con l’obbligo per i Padri di acquistare sei salme di frumento e distribuire il pane ai poveri tutti i venerdì.

La ricchezza dei Monaci di S.Benedetto fu dovuta principalmente al sovvenzionamento dei venti monaci (divenuti anche trenta), le cui rette annuali graveranno come un macigno sugli eredi dei Principi fondatori.

Difatti Don Domenico Colonna e Gusmann, beneficiato dell’eredità di Donna Margherita per testamento del 17 Marzo 1673 (atto notaio Nicolò Florelli di Roma), si vide costretto a trasferire ai Padri di S.Benedetto per ripianare le rette di diversi anni per il sovvenzionamento dei 20 monaci la Tenuta dell’Ambelia di 14 salme nel feudo di Resinech.

Essa era l’ultima proprietà che il Colonna possedeva a Militello.

Nel 1824 i Branciforti del Ramo Raccuia, divenuti eredi Signori della Terra da un paio di secoli non più residenti a Militello, in cambio delle consuete rette ammontanti a 600 once l’anno, concessero ai PP.Benedettini come tacitazione definitiva” alcuni mulini, che erano stati sempre di loro proprietà, da cui ricavavano cospicui redditi (ogni mulino produceva un reddito pari a quello di un feudo!). Erano gli ultimi beni rimasti ai principi a Militello.

Da questo momento in poi tutti i beni dei principi di Militello (dai fondatori ai loro successori) si trasferirono in toto ai PP.Benedettini, i quali divennero l’economia portante non solo di Militello, ma anche dei paesi viciniori. Essi, che erano esenti anche di tutte le tasse, gestivano tale immenso patrimonio dal grandioso loro Monastero di S.Benedetto, tramutatosi in un grande Palazzo Nobiliare. Altri terreni venivano comprati dai PP. Benedettini in diversi luoghi e si può dire che quasi la maggior parte di quelli irrigui della valle di Loddiero divenisse di loro proprietà anche per donazioni.

Con l’avvento del Regno d’Italia, in forza delle Leggi dell’Incameramento dei Beni Ecclesiastici del 1866-1867, tutti i beni del Monastero, diventeranno proprietà dello Stato: nella Tenuta di Ambelia fu fatto un Centro Ippico, i terreni venduti all’asta dall’Ufficio del Registro, appannaggio con pochi soldi dei baroni e possidenti del luogo, la Chiesa e il Monastero ceduti al Comune di Militello.

I Benedettini in ogni tempo si adoperarono per accrescere il patrimonio del monastero anche su territori di altri paesi, mentre provvedevano, con i cospicui redditi che realizzavano, a completare un’ alla volta la monumentale opera monastica, che si protrasse per qualche secolo, sebbene le donazioni concesse puntavano al suo completamento immediato. Però apparentemente il bilancio annuale chiudeva sempre in passivo; i monaci a seconda dei loro servizi godevano di un adeguato appannaggio e l’abate spendeva per il suo vestiario 30 once all’anno, cioè l’equivalente di 600 giornate lavorative di un operaio di allora!

Numerosi (quasi uno ogni tre anni) designati furono gli abati da ogni parte d’Italia a reggere il monastero, che tralasciamo di elencare, i quali non sempre raggiunsero Militello; in vacanza del titolare veniva retto da un priore.

Taluni furono di ragguardevole statura religiosa, basti pensare all’Abate Francesco Celesia, che diventerà Arcivescovo e Cardinale a Palermo, e all’Abate Benedetto Denti, che nel 1833 venne nominato secondo vescovo di Caltagirone. Un altro abate Don Clemente Reina, dei principi dell’Aere del Conte, dal 1838 al 1846 divenne Arciprete dell’Unica Chiesa Parrocchiale Matrice SS.Salvatore.

La fabbrica, sorta con una contenuta ma elegante linea barocca, realizzata in travertino bianco locale di S.Barbara, comportò una ingente spesa che superò abbondantemente gli 80/mila scudi e fu terminata, almeno nelle strutture principali, nel 1646, come si legge nella lapide posta sopra la porta principale:

D.O.M. Magno Benedicto Ancio, Austriaci sanguinis ornamento egregio monasticae militiae antesignano inclito aedem hanc aere splendido D. FRANCISCI BRANCIFORTI et D. JOANNAE AUSTRIACAE munificentissime elaboratam D. MARGARITA filia. D. XV Januarj MDCXLVI”.

Questa la traduzione: “Dio Ottimo Massimo. Al grande Benedetto, discendente dagli Anici, inclito antesignano ed egregio ornamento della milizia monastica; questa chiesa, (sorta) con generose oblazioni di Don Francesco Branciforte e diDonna Giovanna d’Austria, (venne) rifinita in modo assai munifica dalla figlia Donna Margherita il 15 Gennaio 1646”.

La calce impiegata per la costruzione provenne dalla proprietà benedettina della Izzira, detta ‘grotta del monaco’.

Il furioso terremoto dell’11 Gennaio 1693 arrecò sensibili danni all’ultimo ordine della chiesa, di cui caddero alcuni intagli; esso non era stato ancora completato (sebbene vi fossero alloggiate le campane) perché l’originario progetto era risultato inadeguato. Nella fase della ricostruzione, su nuovo progetto dell’abile architetto militellese sac.Antonino Scirè Giarro, vincitore di un concorso, poté essere completato l’ordine con la cella campanaria con tre nicchie, sovrastata da una costruzione semicircolare ‘a ventaglio’, e completata, al posto della croce, da un pastorale che sorregge una bandiera ondeggiante di lamiera con la scritta PAX, portante sopra la ‘A’ una croce (come l’emblema dipinto nella parte frontale interna sotto la cupola), fungente anche da anemoscopio. Di detta bandiera oggi esiste solo il pastorale.

A completamento della struttura della facciata, il 21 Marzo 1724, periodo in cui c’era molta affluenza di pellegrini per i prodigi del Bambino Gesù, avvenne l’inaugurazione solenne e furono rappresentate alcune scene della vita di Cristo.

Il sisma seppellì sotto le macerie anche il grande quadro ritraente S.Benedetto che con la spada in mano impone ai suoi primi seguaci la Regola riportata in un libro aperto tenuto da un frate in ginocchio, mentre in alto c’è la Triade Divina e un coro di Angeli (opera realizzata per 40 once dal conterraneo G.Battista Baldanza junior, come da atto del notaio Magro del 20 Aprile 1646). Tale quadro rimase molto danneggiato a causa della caduta sotto le macerie del tetto del cappellone, cioè dell’abside centrale della chiesa, appena costruito, dov’era allora collocato. Venne definito da Vincenzo Natale non solo il più grande di Militello ma della nostra Sicilia; esso fino al 1960 circa era collocato nel suo posto originario, cioè nella parte centrale sopra il Coro. Gli fu dato il colpo di grazia dal suo parroco con la sua poco prudente rimozione assieme all’artistica cornice, di cui si sono perse le tracce, arrotolato e completamente rovinato con grande rammarico di tutti i fedeli; oggi, restaurato ma poco intellegibile, ha trovato posto nella chiesa dismessa di S.Domenico.

I PP.Benedettini molto scrupolosi nell’affidare le commissioni delle opere, nell’avere scelto G.B.Baldanza per far eseguire il principale quadro della loro chiesa avranno sicuramente apprezzato molto il talento artistico di questo artista, che a Militello aveva eseguito diverse opere pittoriche e di scultura.

Patì pochi danni il dormitorio di mezzogiorno del monastero per la caduta del dammuso, mentre gli altri due, quello di levante e quello di tramontana, che formavano la quadratura attorno al chiostro, subirono molti danni, ma furono prontamente ricostruiti negli anni successivi, però lasciando il chiostro senza copertura. Invece non patirono danni le statue del SS.Crocifisso, della Madonna della Vittoria, del Signore Risuscitato, e nemmeno il Santuario delle Reliquie con l’intero corpo di Santa Benedetta, alcune ossa di S.Rosalia, di S.Vitale e di S.Pasquale.

La chiesa è lo specchio del mecenatismo dei principi di Militello che la vollero, ma anche della opulenza dei PP.Benedettini votati a opere imponenti e monumentali. Si pensi che il complesso monastico dei Benedettini di Catania da un’indagine recente è stato classificato il più grande del mondo, e non più dopo quello di Mafra d’Estremadura in Portogallo e questo di Militello, per grandezza, è il terzo monastero benedettino della Sicilia dopo quello citato di Catania e di quello di Monreale, mentre la chiesa è una delle più grandi della diocesi di Caltagirone.

Il suo prospetto esterno è una delle pochissime testimonianze del vecchio barocco (cioè prima del sisma del 1693); è esposto a mezzogiorno e si articola in tre ordini architettonici: dorico, ionico e corinzio. Sopra la porta centrale, che si apre su una gradinata di otto scalini, si trova una lapide che ricorda la fine dei lavori strutturali anzi descritta e lo stemma del casato degli illustri principi mecenati formato da due riquadri d’Austria e Branciforte, che sarà ripetuto anche nella chiesa della Madonna della Vittoria di Napoli, voluta da Donna Giovanna. Ai lati della porta si trovano due finestre ovoidali con grate in ferro come due occhi che danno luce ai vani delle scale per accedere, una all’orologio, l’altra alla cella campanaria, mentre di sopra nel secondo ordine si apre una grande finestra, che per la sua esposizione a mezzogiorno procura all’interno della chiesa molta luminosità.

Le campane hanno un particolare suono argentino, perché all’atto della fusione Donna Giovanna volle aggiungere nel crogiolo una certa quantità d’argenterie personali. Un suo ritratto la ritrae con le mani tenenti un vaso d’argento, per ricordare quel munifico gesto di volere le campane con un suono diverso dalle altre e più squillante. Purtroppo, la campana mezzana verso il 1970 si ruppe e a suo posto fu collocata quella piccola dell’orologio.

Nelle parti laterali della costruzione fanno bella mostra di sé le ampie finestre, di cui solo quelle sulla Via Umberto sono riccamente decorate con sculture e con scudi ritraenti il leone rampante, simbolo del casato Branciforte. Nelle altre due finestre gli scudi raffigurano la mitra dell’abate su quella della crociera e il pastorale in quella della canonica. Sotto quest’ultima si trova una graziosa finestra ovoidale e, sotto ancora, la porta che dà l’accesso alla canonica realizzata su diversi piani, dove fino a qualche decennio fa sono state ospitate delle suore, con una gradinata, che venne realizzata verso il 1960, e reca nell’architrave lo scudo pontificio. Tale grande locale a ponente dell’altare maggiore aveva subito il crollo del tetto per il sisma del 1693, ma rifatto, crollò di nuovo nel 1725, rimanendo da allora a cielo aperto in stato di pietoso abbandono.

Nella realizzazione dell’opera non venne trascurata nemmeno la parte posteriore, dove si ammira una lunga balconata sorretta da 17 mensole con mascheroni chiamate allora ‘gattoni o cagnoli’ e sopra la grande finestra dell’abside l’insegna dell’abbazia con il cappello prelatizio; pure curata la parte sotterranea, a cui i monaci accedevano internamente dalla scala esistente accanto alla sacrestia. Da oltre un secolo c’è stato solo l’ingresso esterno nell’angolo di nord-est, dove si trovano incise le date 1623, 1681 e 1699.

L’interno del tempio, a forma di croce latina, si mostra non meno sontuoso del prospetto esterno, con una sola alta e ariosa navata e una spaziosa crociera, che è sovrastata da una equilibrata cupola con un affresco, riproducente S.Benedetto attorniato da Angeli che viene attratto verso il cielo; dall’esterno la cupola si mostra di forma ottagonale con quattro finestre.

La chiesa è illuminata da quattro ampie finestre nelle parti terminali e da altre sei, tre per ogni fianco, sopra gli altari. Quattro pilastri vuoti, con molta probabilità progettati per sepoltura dei principi della Terra, separano gli altari. Nei quattro riquadri a stucco vi erano collocati ritratti di santi, fra cui uno molto prezioso ritraente S.Francesco Ferreri, dipinto dal Paladini; degli stessi oggi non rimane alcuna traccia. Le acquasantiere di marmo bianco ai lati dell’ingresso principale portano la data del 1646.

Il pavimento originario doveva essere di una preziosità inimmaginabile; era costituito da mattonelle di ceramica smaltata, di moda allora, il cui unico disegno con larghe decorazioni barocche interessava tutta la chiesa fino alla crociera. A causa dell’usura da calpestìo tale disegno scomparve quasi del tutto; rimasero tracce nelle parti periferiche vicino all’ingresso, salvaguardato dal paravento, oggi non più esistente e sostituito da una porta interna a bussola (esperienza diretta). Nel 1987 il pavimento fu lastricato con mattonelle di cemento e graniglia di marmo. In quella occasione nel transetto davanti all’altare del Crocifisso venne alla luce un grande vano sotterraneo vuoto. Nel pavimento di detto altare si apre una botola che dà l’accesso alla parte sotterranea dell’intera chiesa con appropriati vani anche in corrispondenza dei quattro pilastri vuoti fra gli altari, con eccezione di quello con il sepolcro del Principe D.Francesco Branciforte, il cui accesso avviene dal vano attiguo del cortile, in atto occupato dalla Polizia Municipale. In quell’occasione il pavimento del transetto fu rimosso. Era formato da pietre bianche di S.Barbara, che furono collocate nei grandi gradini del Giardino Comunale.

L’altare maggiore è un capolavoro d’intarsi di marmo policromo di Casa Professa (Scuola palermitana) del 1726, nella cui parte posteriore è collocato un grazioso Presepe, che fino al 1867 era ricco di molti ed artistici pastori del ‘700, ora rimpiazzati con altri di fattura moderna. E’ fiancheggiato da due candelabri di legno dorato del settecento. Nella parete di destra da un decennio vi fu collocato provvisoriamente un affresco d’autore ignoto staccato da una parete del sottostante sotterraneo e raffigurante la Deposizione dalla Croce di Gesù con pie donne; nel 2007 lo stesso è stato trasferito nella nuova pinacoteca nei locali dell’ex convento di S.Domenico. Nella parete di sinistra si trova l’alloggiamento in noce dell’organo della chiesa, che scomparve durante il periodo della chiusura della chiesa, a cui si accede tramite una scaletta interna dalla porticina sottostante.

Nell’abside di forma rettangolare dietro l’altare maggiore, un tempo chiamato ‘cappellone’ giganteggia il prestigioso Coro ligneo del 1735 scolpito in noce, degno dell’importanza dei nostri Monumenti Nazionali, che è un vero capolavoro d’arte e reputato il terzo della Sicilia dopo quello di S.Nicolò La Rena di Catania e di quello di Monreale, opera di certosina pazienza e di eccezionale bravura di qualche monaco rimasto sconosciuto, coadiuvato da altri confratelli, che seppero applicare alla lettera il motto di S.Benedetto ORA ET LABORA.

Il coro ha 33 posti a sedere con 29 pannelli delle dimensioni 75×40 racchiusi dalle rispettive cornici. Al centro, sotto lo stemma di S.Benedetto ove è rappresentato un corvo (simile a quello che sovrasta il balcone centrale del Municipio) c’è il pannello che ritrae la Madonna con il Bambino; da esso si dipartono, quattordici per lato, gli altri pannelli.

Guardando frontalmente a destra del pannello centrale sono ritratti i cinque Misteri dolorosi completati in quella parete con quello dell’evangelista Marco. Proseguendo nell’altra parete si trova l’evangelista S.Giovanni e gli altri sette riproducenti episodi della vita di S.Benedetto. Sempre partendo dal pannello centrale, a sinistra si vedono cinque pannelli che descrivono i cinque Misteri Gaudiosi; completa la parete l’evangelista S.Matteo. Nella parete laterale nell’angolo c’è il quarto evangelista S.Luca e di seguito gli altri sette pannelli con episodi della vita di S.Benedetto. Completa questa meravigliosa opera il leggìo in noce con gli antifonari del ‘700 e nella parete frontale un grande Crocifisso sopra il coro, che ha preso il posto del grande quadro di G.Battista Baldanza (con S.Benedetto che consegna la Regola dell’Ordine).

Nella crociera si ergono due monumentali altari in marmo: in quello di sinistra c’è custodita la statua di S.Benedetto, di recente fattura del 1970, mentre prima c’era Gesù Crocifisso di pregevole fattura, opera di uno scultore che l’esimio prof. Maganuco ebbe a definire ‘un abile artista ma soprattutto un autentico anatomista’. Ai piedi della croce c’era posta l’Addolorata. Di tali statue si sono perse le tracce sin dalla elevazione a parrocchia della chiesa nel 1954. Nell’altare di destra troneggia la bellissima Madonna della Vittoria, qui fatta trasportare dall’oratorio privato di Donna Giovanna sito nel castello. Detta statua ritrae la Vergine con in braccio il Bambino e con sotto i piedi una mezza luna, simbolo dei turchi.

La statua era stata portata da lei da Napoli, dove sarebbe stata realizzata da un certo Rinaldo Russo (secondo Claudia Guastella), in memoria della vittoria di Lepanto sulla flotta turca da parte della Lega Cristiana, capitanata da suo padre, Don Giovanni d’Austria, figlio naturale dell’imperatore Carlo V; in quell’occasione fu indetta dal Pontefice la festa della Madonna del Rosario, in ringraziamento a Maria SS.

A Lei Donna Giovanna volle dedicare uno dei due principali e sontuosi altari della crociera, oltre quello di S.Benedetto, titolare della chiesa.

Per la ricorrenza ogni anno, prima che la chiesa divenisse parrocchia, il rettore del tempo Sac. Salvatore Abbotto, nell’omelia della messa di mezzogiorno recitava la tradizionale supplica alla Madonna del Rosario e, da meticoloso storico qual’era, rievocava i Principi fondatori e l’avvenimento di quella battaglia.

Probabilmente Donna Giovanna, che aveva devoluto per la costruzione del complesso benedettino quasi l’intera sua dote matrimoniale, gioirebbe se annualmente appunto nella prima domenica di ottobre venisse tributata a questa immagine di Maria una solenne festività anche per solennizzare una clamorosa Vittoria che fu di tutta la Cristianità. Non si deve dimenticare che senza la ferrea volontà e munificenza di questa benemerita Signora di Militello, oggi non avremmo un complesso edilizio così imponente, che è il più monumentale edificio della città, orgoglio dei cittadini.

Invece è triste constatare come questa principessa sia stata dimenticata dai posteri poco riconoscenti, al punto che nell’altra sua opera munifica, il monastero dei Chierici Regolari Teatini e dell’annessa chiesa della Madonna della Vittoria nel quartiere Chiaia di Napoli, oggi non c’è più alcuno, nemmeno il rettore, che conosca la storia della sua fondazione e nemmeno della sua benefattrice generosa anche con i Frati Teatini, beneficiati con altri doni come la famosa biblioteca di Militello. Personalmente abbiamo potuto a malincuore constatare che non esiste più alcuna traccia di questa Donna Giovanna, che volle essere tumulata proprio nella chiesa di Chiaia di Napoli. Mi fu chiesto: “Ma, chi era questa Donna Giovanna d’Austria?”

Gli altri altari della nostra chiesa di S.Benedetto sono tutti in marmo policromo. A sinistra accanto alla porta principale c’è una cappella racchiusa da una cancellata con una pala d’altare, che ritrae la medicazione delle ferite prodotte dalle frecce a S.Sebastiano nel primo martirio e il fonte battesimale. In tale cappella c’è una porticina che introduce in un vano con un torrione interno con scala a chiocciola alla cui sommità sopra il tetto della cappella era collocato l’orologio, oggi non più esistente, e nemmeno il quadrante con numeri romani prospiciente sulla Via Umberto, le cui campane furono realizzate verso il 1720.

Dopo tale altare trovasi l’ingresso secondario che dà sulla Via Umberto, dove è stato sistemato da recente un lavabo in marmo del ‘600, un tempo sito nella sacrestia. Subito dopo c’è l’altare di S.Benedetto, con pala in cui è ritratto nella sua morte, dopo aver ricevuto la comunione, assistito da tre suoi nipoti chierici con la stessa somiglianza e guardato dall’alto da altri due nipotini decessi molto tempo prima, pregevole opera del 1741 di Sebastiano Conca (1680-1764).

Sul lato destro c’è l’altare di Santa Rosalia con ritratta la peste che infuriava a Palermo, di pregevole fattura settecentesca con accanto la porticina che dà accesso al campanile della chiesa; segue la cappella del Bambino Gesù, ed infine quella di S.Geltrude, abatessa benedettina, mentre viene incoronata da Gesù.

Il pregevole altare di stile barocco del Bambino Gesù, il secondo sul lato destro, di fronte all’ingresso secondario che si affaccia sulla Via Umberto, merita di essere descritto con dovizia di particolari. Esso è scolpito in legno indorato a zecchino. La cappella, intonacata nel 1720, è tutta affrescata con festoni d’Angeli e con medaglioni ovoidali rappresentanti i misteri della vita di Gesù e della Vergine. Nella parte centrale in sommità c’è un quadro settecentesco con l’Annunciazione e immediatamente sotto, sulla parte alta di alcuni gradini troneggia su una cornice d’argento un quadretto con il Bambino Gesù. Nella parte frontale della mensa dell’altare c’è una finestrella con vetro dove originariamente era stata posta una statuina del Bambino Gesù.

L’altare porta i segni dei danneggiamenti per essere stato sommerso da cataste di frumento, ivi immagazzinato perché requisito durante la Grande Guerra del 1915, allorché la chiesa apparteneva al Comune di Militello, perché espropriata in forza delle Leggi dell’Incameramento dei Beni Ecclesiastici del 1866 e 1867. Oggi finalmente a seguito di appropriati lavori di restauro a cura della Soprintendenza di Catania, l’altare si mostra come un autentico gioiello d’arte barocca. Sul lato destro si trova una finestra con una grata che racchiude il cadavere imbalsamato del Principe Francesco Branciforte e di altri suoi familiari. Sotto è posta una lapide in latino di cui proponiamo la seguente traduzione:

Dio Ottimo Massimo- Perché la forza deleteria del tempo non corroda non le ceneri, ma il tesoro (che racchiude);perché il sepolcro non faccia dimenticare coloro che insigni per virtù la tromba (della fama) fece vibrare sull’auree penne, questo marmo con la sua solidità conserva e col suo splendore indora, affinché, come nei cieli, così in questa tomba, vivano lungo tempo le memorie di Vincenzo Branciforte, il quale sotto la guida di esimia sapienza, apprezzando grandemente non i fasti del secolo corrotto, ma le infule sacre dal Principato di Butera, venne nominato Regio Abate di S.Maria sotto i tre titoli (ternu titulo) di Nuova Luce, delle Scale e del Parto, e di Francesco Branciforte, fratello di Vincenzo, Principe di Pietraperzia e Marchese di Militello, al quale come uomo illustre fra i magnati fu data in degnissima sposa la Serenissima D.Giovanna d’Austria, nipote per il figlio Giovanni di Carlo V, Imperatore Romano. (Questo marmo) custodisce anche come atomi lucidissimi di nobiltà i resti mortali di tre bambini di quell’illustre Federico Colonna, principe romano di Paliano e della moglie Margherita, figlia di Francesco Branciforte e di Giovanna d’Austria. (Vincenzo e Francesco Branciforte) morirono entrambi all’età di 36 anni: (‘ille’ cioè Vincenzo nel giorno dell’Annunziata (?) o meglio ancora all’inizio della propria carriera religiosa da abate ‘ab Ave Maria’ nel 1620, ‘hic’ cioè Francesco nel 1623). Questo sarcofago (è stato) rifatto in forma più decorosa il 25 Aprile dell’anno 1717 “(cioè dopo circa cento anni).

Dall’esame di detta scrittura abbiamo potuto rilevare qualche inesattezza, che si rende necessaria chiarire:

1) Colui che dettò l’epigrafe (forse il priore Notarbartolo da Catania) non ha dato il dovuto risalto alla figura del vero benefattore del complesso monastico, il Principe Don Francesco Branciforte, il cui nome figura appena accennato, offuscato dagli elogi invece per il di lui fratello Abate Don Vincenzo;

2) Vincenzo e Francesco non sono entrambi morti all’età di 36 anni, ma solo Vincenzo aveva quell’età, perché, nato il 20 Novembre 1584, venne colto dalla morte a Militello il 2 Dicembre 1620, mentre Francesco visse 47 anni, essendo nato il 17 Marzo 1575 e morto il 23 Febbraio 1622;

3) Francesco morì nel 1622 e non nel 1623.

4) I bambini ivi sepolti non erano tutti e tre figli di Federico Colonna e di Margherita d’Austria, primogenita di Don Francesco: solo uno era loro figlio, cioè Antonio Colonna, nato a Napoli e morto il 16 Dicembre 1628 a Militello all’età di qualche anno. Gli altri due cadaverini, invece, appartengono alle figlie di Don Francesco Branciforte, nate dopo Margherita. Esse sono Caterina nata all’Ambelia il 1 Giugno 1610 e morta il 13 Novembre 1610 a sei mesi, e Flavia nata il 10 Dicembre all’Ambelia e morta il 7 Ottobre 1611 di 10 mesi, sepolte dapprima nella chiesa di S.Maria, come rilevato dai libri parrocchiali.

Il 4 Aprile 1925, dopo la riapertura al culto della chiesa, mediante un’apertura effettuata da un vano del cortile, fu fatta una ricognizione del cadavere imbalsamato di Don Francesco; fu portato fuori e mostrato all’ammirazione dei cittadini, ma subito si intravidero manifestazioni di decomposizione e pertanto venne rimesso nel sacello. Per l’occasione fu redatto un verbale ad opera delle autorità intervenute; la spada e lo spadino furono portati nella stanza del sindaco, ma da recente sono stati collocati nel Museo Civico Sebastiano Guzzone in un’apposita bacheca a vetri. Il cadavere del principe era avvolto in un saio da penitente, mentre il vestito abituale si trovava ripiegato a parte, che si spera di recuperarlo con appropriati lavori di restauro.

Si può dire che in quel tempo fosse consuetudine vestire i cadaveri dei personaggi più di spicco con ‘saio monacesco’; anche la moglie D.Giovannna e la figlia D.Margherita disposero di essere sepolti col saio.

A seguito del rinvenimento di nuovi documenti riguardanti la vita del principe Francesco Branciforte, in Aprile 1996 il sacello è stato di nuovo aperto per far eseguire un esame necroscopico al cranio dal prof. Francesco Mallegni dell’Università di Siena assistito dal dott. Sebastiano Lisi; essi nell’anno 2003 presentarono una relazione circa la causa del decesso dovuto ad avvelenamento da arsenico.

Per volere del principe Don Francesco Branciforte, in questa chiesa dovevano essere collocati i tre monumentini funebri dei propri congiunti, signori della Terra di Militello, di Blasco II Barresi, del proprio nonno materno Carlo Barresi e di suo zio materno Vincenzo Barresi, che verso il 1780 invece furono trasportati nella chiesa di S.Maria della Stella.

La chiesa fu dotata di una fornitissima biblioteca, che dal priore del 1726 fu dichiarata di proprietà del cenobio di S.Nicolò La Rena di Catania, e di preziosi paramenti sacri, oltreché di numerose reliquie, fra cui il corpo intero di Santa Benedetta. Degni di menzione sono il busto di S.Benedetto e un Bambinello entrambi d’argento, come pure una pisside barocca, diversi calici, una navetta per l’incenzo a forma di galeone, come a ricordare la famosa Battaglia navale di Lepanto e un ostensorio con rubini e diamanti.

Il Monastero

Oggi sede del Municipio, con la sua linea spiccatamente barocca, risalente a prima del terremoto del 1693, è in sintonia con quella della chiesa monumentale attigua e ne completa l’armonia architettonica di congiunzione del Vecchio Barocco (prima del terremoto del 1693) e il Nuovo Barocco. Il suo prospetto è su due livelli: nella parte bassa ai lati del portale d’ingresso, che si erge sopra otto gradini sul livello della piazza, si trovano nove finestre (in origine erano tutte con grate in ferro), al primo piano tre grandi balconi, di cui quello centrale è sopra l’ingresso, distanziato da tre finestre per lato dagli altri due.

Sopra il balcone centrale si nota il blasone dell’Ordine Benedettino, che ritrae un corvo, come quello del coro della chiesa (furono i corvi in compagnia degli Angeli che guidarono S.Benedetto per la via di Cassino).

Completano il superbo prospetto due finestre ovoidali, riccamente decorate, come due occhi, di cui quella di sinistra dà luce al corpo scala che immette al primo piano.

Nell’androne, adesso sgombro, una bussola di legno delimitava a sinistra il corpo della scala, che porta al piano superiore, separandolo dalla porta che introduce nello spazioso cortile interno e dall’arioso corridoio che corre in linea con il corpo dello stabile di mezzogiorno e poi di levante.

Sopra la bussola fino al 1950 c’era collocato un ritratto di D.Margherita d’Austria; mentre sopra la porta del cortile erano collocati i ritratti dei ‘Serenissima Ioanna de Austria e D.FranciscusBranciforti, fundatores’, oggi riposti nel Museo Civico (esperienza personale). Nell’androne oggi si trovano due lapidi commemorative: a sinistra quella del 2003 riconoscimento di Militello come patrimonio dell’U.N.E.S.C.O. assieme ad altre sette cittadine del Val di Noto, e di fronte, quella ad Angelo Majorana risalente al 1910, anno della sua scomparsa. Si trova, altresì, il monumentino con il busto del senatore Salvatore Majorana Calatabiano, genitore di Angelo, capostipite di tutto il prestigioso casato Majorana Calatabiano, qui portato dal giardino pubblico, dove originariamente era stato collocato nel dopoguerra 1945.

Nel cortile in origine c’era un chiostro con portici e tetto calpestabile; si intravede ancora sotto le finestre del primo piano la linea dell’intonaco delle volte semicircolari crollate nel terremoto del 1693.

Per la cronaca possiamo riferire che dal terremoto 1693 e fino al 1867 il complesso monastico visse il periodo migliore della sua esistenza piena di intensa attività religiosa, ma anche economica; i monaci erano numerosi e disponevano di redditi notevoli e pure di proventi da vendita della neve, che essi custodivano in una grotta nel luogo della chiesa della Misericordia ‘a rutta da nivi’ e in una casa (del sig.Sebastiano Greco) di contrada Vanella dove si trovano degli incavi con gocciolatoi. Dietro autorizzazione dei Principi della terra ottennero che il denaro stanziato per il completamento della struttura monastica fosse investito nell’acquisto di beni immobili ‘di giardini e casuncole’ e con il ricavato delle rendite annuali di finanziare i lavori di costruzione e di rifacimento..

Senza ombra di dubbio il monastero era la struttura economica più importante di Militello e una buona parte dei cittadini era subordinata ad esso per vari motivi: censi, canoni, lavori, forniture.

Da tener presente che il monastero non era sottoposto ad alcuna forma di tassazione perché ne erano esenti nobili, clero ed ordini religiosi.

Il Piano Urbanistico di Militello

Nel 1708 i monaci si impegnarono nell’alleviare le sofferenze dei senzatetto sopravvissuti al terremoto del 1693; a levante del monastero su terreno proprio fecero tracciare una strada dritta, chiamata poi Via Donna Giovanna d’Austria, di cui lottizzarono il terreno, destinando la sola fila di mezzogiorno ad abitazioni private da costruire secondo un rigoroso piano urbanistico (fronte m.4,16 e lunghezza m.8,06). Per tutte le case da costruire, ‘terrane’ o’ solerate’ (cioè con il primo piano), ed il terreno ad esse annesso, fu imposto ai compratori con contratto scritto di lastricare il tratto di strada antistante e di effettuare ogni sabato la pulizia davanti alla propria casa. Nasceva così per merito dei Benedettini l’Edilizia Popolare con un ‘piano regolatore condominiale’, cosa rarissima in quei tempi, se non unicum. I beneficiati erano sottoposti al pagamento dell’enfiteusi, e potevano ricorrere ad un ‘soccorso’ (cioè un prestito), erogato dagli stessi monaci al tasso del 5%; potevano però essere multati di un tarì ‘da applicarsi per elemosina delli poveri carcerati’, se osavano buttare l’immondizia nella strada. I monaci tutti i venerdì offrivano ai poveri un pasto caldo.

Oggigiorno quelle case sono state tutte modificate e non portano più alcuna traccia del primitivo prospetto; ne rimangono solo tre, tutte adiacenti, ’una solerata’ al numero civico 28, che porta la data del 1843, e ‘due terrane’ ai nn. 30 e 32, segni di una disciplina edilizia con intagli tutti uguali e della stessa altezza.

Verso il 1720 un monaco portò da Messina un piccolo quadro con Gesù Bambino, copiato da una statuetta che fu vista lacrimare nel 1712, e un batuffolo di cotone imbevuto di quelle ‘mirabili lagrime’. Si ebbero allora i primi prodigi e miracoli a Militello descritti in una pubblicazione da Carlo Ferrarotti Cigala del 1721. Fu necessaria una transenna davanti alla cappella del S.Bambino ‘per non fare calpestare gli infermi dalla calca’ dei pellegrini giunti da tutta la Sicilia e che all’esterno della chiesa bivaccavano in attesa di poter entrare.

I monaci elargivano figurine, medaglie, misure (nastrini colorati), cotone, polizze e acqua benedetta, che veniva attinta da una piccola cisterna accanto all’altare maggiore, il cui livello per prodigio, malgrado i frequenti e sostanziosi prelievi, ‘non diminuiva nemmeno di un dito’. L’acqua veniva portata e fatta bere agli ammalati, oppure sparsa nei campi per propiziarsi un abbondante raccolto, o messa nelle botti perché il vino non si guastasse (lo stesso per l’olio). Anche le mandrie e le greggi venivano portate davanti alla chiesa e benedette con l’acqua miracolosa per protezione dalle epidemie. Da una contabilità è risultato che per la vendita dell’acqua santa si ricavarono 105 once e se ne spesero 60. I pellegrini scrivevano su fogli di carta la grazia che desideravano ottenere da Gesù Bambino. Dal libero mercato veniva acquistato il frumento per essere poi rivenduto ‘benedetto’, perché asperso dell’acqua miracolosa.

In quei giorni di grande affluenza dei fedeli erano in corso i lavori di completamento dell’ultimo ordine della facciata su progetto del sac. Antonino Scirè, che venne ingaggiato dai monaci come direttore dei lavori per garantire che gli stessi venissero eseguiti a regola d’arte.

Dopo qualche decennio quell’affluenza di pellegrini incominciò a scemare fino a scomparire del tutto; però sopravvisse la giornata di festa del Bambino Gesù, il 25 Maggio e una particolare cerimonia religiosa in tono minore ogni giorno 25 di tutti i mesi. I monaci ogni anno ricevevano dall’Università di Militello un contributo per la festa di Santa Rosalia.

Nell’autunno del 1700 Militello fu mobilitato per la prevista visita del Viceré di Sicilia Pietro Colon, duca di Veraguas, il quale doveva alloggiare nel monastero assieme al suo seguito e a 40 borgognoni con i cavalli (per i quali si prepararono le stalle nel sotterraneo, dove furono allestite anche le cucine). Fu collocato lo stemma gentilizio e si predisposero anche i fani per le segnalazioni per il suo arrivo. Per le strade in cui il corteo doveva transitare fu fatta una pulizia straordinaria e un assetto del fondo stradale; purtroppo a causa del decesso improvviso di Re Carlo II, la visita fu annullata.

Con l’avvento del Regno d’Italia, nel varo delle Leggi Siccardiane del 1866 e 1867, dell’Incameramento dei Beni Ecclesiastici, quando i deputati gridarono ‘Date a Cesare quello che è di Cesare, …ma tutto è di Cesare!’ il complesso monastico con la chiesa, gli arredi sacri e le relative immense proprietà terriere vennero incamerati dallo Stato, come più sopra riportato. La chiesa e il monastero divennero proprietà comunale, mentre i terreni e gli altri beni messi all’asta dall’Ufficio del Registro, vennero acquistati da privati o da taluni ricchi influenti, a cui erano confluiti i più importanti incarichi statali e locali. Essi formavano la nuova classe dirigente, dopo l’abolizione dei diritti feudali e la scomparsa dei baroni, Signori delle Terre, in forza del famoso Decreto del Viceré Caracciolo del 1812, come abbiamo riferito in un altro capitolo.

La maggior parte dei terreni irrigui o meno lungo il corso d’acqua di Loddiero divenne proprietà del barone Majorana della Nicchiara.

Nel 1870, il principe Pietro Lanza di Palermo, successore del Casato Branciforte, tentò di riappropriarsi del complesso, intentando causa allo Stato Italiano, ma senza alcun positivo risultato, anche se in primo grado ebbe sentenza favorevole.

Nel 1897 nell’ampia sacrestia l’allora giovane sacerdote Don Luigi Sturzo tenne una conferenza per condannare taluni soprusi che venivano perpetrati a danno degli agricoltori e dei poveri. Il suo sermone venne interrotto dalla Forza Pubblica, in quanto contravveniva a norme di pubblica sicurezza.

La chiesa venne chiusa al pubblico, tanto che durante la guerra del 1915-18 vi venne accatastato il frumento requisito; scomparvero i pastori del Presepe, i numerosi libri della biblioteca e diversi preziosi antifonari del ‘700; la mancata manutenzione provocò consistenti danni. Quel grande vano dell’attuale canonica, privo di tetto, venne adoperato per deposito di detriti e di rifiuti; vi vennero accatastate le lanterne a petrolio della vecchia illuminazione pubblica (esperienza personale).

Negli immensi locali del monastero (tutti lastricati con mattonelle ottagonali di creta di Caltagirone) andati via i monaci, incominciarono a trasferirsi tutti i più importanti enti pubblici, gli uffici comunali, quelli giudiziari della Pretura e della Conciliazione, delle Scuole Elementari maschili, delle Poste e telegrafo, della Caserma dei Carabinieri, della Sala Musica, dell’alloggio del custode, del comando dei Vigili Urbani e, in tempi più recenti della Biblioteca Comunale Angelo Majorana. Nello spazioso cortile, una volta chiostro, fu ubicata anche un’Arena Cinematografica con relativo palcoscenico. La parte del sotterraneo, quella non riempita da materiale di risulta e detriti, venne adoperata per ripostiglio e vi venne collocata anche la Cabina Elettrica del Comune.

La consegna della chiesa all’Autorità Religiosa

Nel 1923 le Autorità Municipali, non volendo più privare i fedeli di Militello dell’uso della chiesa, la vollero saggiamente restituire al culto. Vennero varate le Delibere Consiliari del 6 Maggio 1923 e del 15 ottobre successivo, regolarmente approvate dall’Organo Tutorio, con le quali venivano concessi dal Comune, rappresentato dal sindaco avv. Sciannaca a S.E. mons. Damaso Pio De Bono, vescovo di Caltagirone, la chiesa di S. Benedetto, il locale a ponente di essa e l’area edificabile sovrastante alla Sala consiliare, ‘allo scopo di tenere la chiesa aperta al Culto Divino e di adibire il locale da costruire in quell’area edificabile ad un Pio Istituto d’istruzione annettendovi l’attiguo giardinetto per palestra di esercizi ginnici e giuochi fanciulleschi’. La Sala Consiliare allora era sita sopra il vano della sacrestia adiacente al Coro ligneo nella parte di levante.

Poiché la chiesa apparteneva alla giurisdizione territoriale della chiesa Matrice S.Nicolò-SS. Salvatore, essa venne ad arricchire il numero delle sue chiese suffraganee.

Riapertura al culto della chiesa

Per trent’anni ebbe due soli rettori, entrambi zii dello scrivente.
Il primo rettore fu un canonico della chiesa Madre, il sac.ins.Francesco Raciti (1887-1948), zio materno dello scrivente, che resse la chiesa circa 15 anni; ne prese possesso in data 13 Giugno 1925, come si rileva da un verbale.

Fu proprio il sac. Raciti a rinvenire abbandonato in un ripostiglio con la spazzatura il prodigioso quadro del Bambino Gesù e per l’occasione fu fatta una grande festa con processione, a cui parteciparono le scolaresche con le divise del regime di allora, di cui rimane una fotografia, facente parte della collezione dello scrivente.

A questo benemerito sacerdote, educatore e insegnante è riconosciuto il merito di aver gettato le basi per la fondazione della Scuola Media a Militello in quei difficili anni del dopo-guerra 1943-44 e 1944-45, affidando la docenza a diversi professionisti e insegnanti, ed anche a un ex ufficiale dell’Esercito sbandato. Il Raciti elesse gratuitamente la presidenza nella sua casa di Piazza Municipio n.2 ed a fine anno scolastico si premurava di accompagnare egli stesso gli alunni a Caltagirone per gli esami. In questo periodo il Raciti riesce a convincere il signor Melchiore Bisicchia a donare il locale dell’ex Ospizio dei Vecchi di viale Regina Margherita per alloggiarvi la Scuola Media, che allora aveva cominciato a funzionare nei locali del Municipio. Dal 1945 le redini della nascente istituzione scolastica saranno prese dal prof. Paolo Abramo.

Dal 1939 al 1954, nei quindici anni successivi, il secondo rettore della chiesa fu un prozìo dello scrivente, il sac. Dott. Salvatore Abbotto, già parroco a Licodia Eubea e in S.Maria La Nuova di Messina.

Egli fu molto attivo e apriva la chiesa tutti i giorni per la S. Messa al mattino e alla sera per la Benedizione e relativa predica, mostrando una particolare predilezione per il Bambino Gesù, di cui non mancava mai di celebrare le varie ricorrenze. Certamente egli sarebbe stato anche un vero e prestigioso Primo Parroco. Invece ne venne nominato uno decisamente all’opposto.

Durante il suo rettorato, negli anni della seconda Guerra Mondiale, i militari di stanza a Militello scelsero la chiesa di S.Benedetto per la consueta Messa domenicale e, prima della cerimonia religiosa il comandante schierava il contingente nel sagrato della piazza per impartire le sue direttive.

Anche oggi in questo tempio vengono tenute le cerimonie religiose per la commemorazione dei Caduti in Guerra.

Il vescovo di Caltagirone mons. Pietro Capizzi, con decreto dell’8 Dicembre 1952 la elevò a Parrocchia, che incominciò a funzionare dal 1954.

I parroci della Chiesa di S. Benedetto

-SINOPOLI Filippo (dal 1954 al 1992)

-CORBINO Salvatore Antonio (dal 1992 al 1997)

-MONTES Giacomo (dal 1997 al 2006)

-GUZZARDI Michele (dal 2006 al 2011)

-FEDERICO Giuseppe (dal 2011 al 2016) in solidum per S.Nicolò e per S.Maria della Stella con:

-RANDELLO Fabio e

-LA NOCE Emilio

– BERRETTA Luca (dal 2016 in carica) anche della Chiesa Madre S.Nicolò-SS.Salvatore

TESTO TRATTO DAL LIBRO: MILITELLO IN VAL DI CATANIA NELLA STORIA di Mario Aurelio Abbotto.

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